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martedì 21 dicembre 2010

Lo scandalo della violenza. Lettera aperta sui fatti del 14 dicembre


Cara Elisabetta,
mentre ti scrivo Gasparri invoca arresti preventivi tra gli intellettuali e i fiancheggiatori, paventando possibili omicidi nelle manifestazioni studentesche prossime venture.
Mentre scrivo, Gasparri suggerisce ai genitori italiani di stare in guardia, di non mandare i figli alle manifestazioni perché potrebbe scapparci il morto.
Gasparri spera che gli italiani leggano tra le righe: quel morto potrebbe essere tuo figlio.
Se non fosse criminale, direi che è patetico. Sa di stantio. Un linguaggio terroristico vintage, gaglioffo e cialtrone (soprattutto quando si impappina nel minacciare un nuovo “7 aprile”: era il 1979, non il 1978), ma non per questo meno spregevole.
La sua è tattica (strategia è parola grossa per Gasparri) della tensione.
Mi chiedo però: vogliamo valutare il peso di queste parole o le derubrichiamo come una, l’ennesima, esternazione fuori luogo?
Ancora: siamo in grado di rispondere - come cittadini, come genitori, come manifestanti, come persone dotate di buon senso - alle conseguenze che queste parole possono scatenare o vogliamo indignarci solo quando la violenza è portata dal basso?
Le parole di Gasparri sono una provocazione scoperta. Hanno l’obiettivo di mettere tutti nell’attesa di una contromossa. Di suscitarla, la violenza. Non è un caso se l’opinione pubblica attende e si chiede: cosa faranno ora gli studenti?

Qualche settimana fa, quando le proteste studentesche raccoglievano grande consenso, a Exit Curzio Maltese sosteneva che la cosa più rilevante di questo bel movimento pacifico era la presenza delle ragazze, delle donne, in posizione non ancillare. Donne pensanti. Donne in lotta. Donne che prendono la parola. Questa, per lui, era la maggiore novità. Il dato inconfutabile da opporre a chi leggeva nei cortei studenteschi solo vecchi slogan e stanchi cliché.
Nel giro di pochi giorni, l’attenzione è stata portata altrove. Il consenso spazzato via. Da simbolo di un’Italia che vuole risollevarsi e guardare al futuro, i giovani sono diventati di colpo dei terroristi in erba. Possibile?
Dopo i fatti del 14, a colpirmi è la radicalizzazione dei punti di vista, prima ancora che della piazza: i “buoni” che condannano la violenza e i “cattivi” che la difenderebbero. In realtà, a voler essere onesti, gli studenti non hanno difeso la violenza: hanno semplicemente spiegato l’origine di quel momento violento, mettendolo in relazione ad altri episodi avvenuti a Parigi, Londra, Atene.
Gli studenti non vogliono sdoganare la violenza - questa è la mia impressione - ma mettere sul piatto gli elementi che sfuggono quando l’analisi è condotta solo in vitro. Gli studenti ci suggeriscono e ci ricordano, se non ce ne fosse bisogno, che la classe politica (sinistra compresa) non è più, in alcun modo, capace di dragare il disagio. Questo è quello che ci dicono gli studenti.
Ovvio che, stando così le cose, è più comodo per tutti polarizzare la realtà - buoni e cattivi, pompieri e incendiari, studenti e poliziotti - piuttosto che fermarsi a riflettere sul fallimento della democrazia parlamentare, dei partiti e della loro rappresentatività sociale.
In questo momento non mi preme ribadire che sono contro la violenza – voglio darlo per scontato – quanto piuttosto fermarmi a riflettere. Ora è il momento di farlo, ora e non domani, prima che la radicalizzazione (e con essa, la semplificazione) diventi pensiero comune. Se ci lasciamo convincere che le proteste di piazza sono possibili scenari di omicidio, quell'omicidio prima o poi accade. Si chiama profezia autoavverante.
Non ci è più permesso di vivere in apnea, come invece abbiamo fatto finora, in attesa della caduta di Berlusconi. Se oggi perfino un tiepido come Napolitano arriva a dire che bisogna leggere attentamente il messaggio portato da questa generazione, che in parte è anche la mia generazione, significa che gli strumenti di lettura possono essere obsoleti tanto quanto gli slogan. Con una piccola ma non trascurabile differenza: questi giovani non usano vecchie parole d’ordine, non brandiscono la P38, non carezzano la violenza ma ne sono, paradossalmente, giocati e travolti, una volta che la forza delle parole e delle proteste pacifiche si è rivelata insufficiente.
E non meravigliamoci, dunque, se prima di morire soffocati – quando nessuno giunge in soccorso, perché nessuno ti ha mai ascoltato – quello che esce dalla bocca non è una parola educata ma un urlo disperato e incomprensibile. Un rantolo.
Roma, 20 dicembre 2010

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